«Mi sono detto: sei stato tenace, non ti sei lasciato andare»
Addetto alle pulizie, classe 1973, Simone Venturini abita in zona via Oxilia e nel quartiere da sempre. Quando sulla Social District annuncio a novembre che sto cercando storie per un progetto, è tra i primi a scrivermi, e la sua storia è perfetta già in quelle poche righe che mi manda. Mi commuovo anche un po’. Un bel po’. Ama andare in bicicletta, ben prima della pandemia, mi racconta quando ci “vediamo” via zoom agli inizi del 2021, spiegandomi anche come il quartiere sia cambiato negli anni, come puoi leggere qui. Il lockdown di marzo l’ha vissuto scoprendo una vecchia maschera di suo padre, l’umanità di Casa Jannacci in viale Ortles, la musica di Gershwin che amava suo zio, scomparso a causa del Covid.
L’8 marzo era una bella giornata, più calda rispetto alla media. Nel pomeriggio feci un giro in bicicletta, e notai subito un traffico inferiore al solito. Tornato a casa, mentre facevo la doccia ho sentito alla radio la notizia: ho capito subito che andavamo incontro a qualcosa di grosso.
Papà era un tecnico audio video, e usava questa maschera quando riparava i buffer degli altoparlanti hi-fi. Ho così provato a usarla pure io, in quei primi giorni. Adesso purtroppo si è rotta a furia di metterla su, però era comoda, mi consentiva di non appannare gli occhiali e dava una protezione sicuramente maggiore delle prime mascherine di comunità.
Un giorno stavo andando a lavorare con quella mascherina, e un passante mi ha fatto il saluto militare. Avrà pensato che fossi uno dell’esercito, o qualcuno legato a qualche disinfestazione particolare. Chissà cosa avrà pensato. Comunque io ho risposto al saluto.
La foto l’ho fatta per sdrammatizzare, un giorno con un collega.
Le maniglie di viale Ortles
Io sono addetto alle pulizie. Ho un contratto con una cooperativa, e svolgo delle ore di lavoro in via Deledda al Polo Manzoni. Le scuole erano già chiuse l’8 marzo, però continuavamo ad andare lo stesso a lavorare. Nel tragitto da casa a scuola avevo la sensazione di attraversare un quartiere fantasma. Mi era già capitato di entrare nella scuola vuota, magari durante le vacanze di Natale, o a giugno/luglio. Però chiaramente sapendo il motivo, la vivevo con uno stato d’animo diverso. In quelle settimane in cui non c’erano i ragazzi, ci dedicavamo a dei settori che durante l’anno trascuriamo: la palestra, la biblioteca, certi corridoi, le scale… In quella fase, in base alla nostra etica professionale, abbiamo agito proteggendoci il più possibile e utilizzando per pulire quello che avevamo a disposizione.
Adesso non voglio fare l’eroe, però ero forse il più tranquillo. “Dai ragazzi, intanto siamo qua e siamo fortunati che siamo qua, e molti altri nostri colleghi sono a casa” dicevo ai miei colleghi. Capivo la loro preoccupazione, prima di tutto per un discorso di salute, e poi c’era incertezza lavorativa… E infatti a un certo punto a Pasqua il Comune disse che non potevano più entrare nel plesso scolastico, allora ad alcuni di noi vennero mandati in viale Ortles, alla Casa Jannacci.
È un dormitorio. Tu entri e ci sono due lunghi corridoi, e a lato di questi corridoi delle camerate piuttosto grosse, con tantissimi posti letto. Quando la ditta ci ventilò la possibilità di andare lì, si creò un clima un po’ di preoccupazione: “È un postaccio”. E invece ho scoperto poi un luogo popolato da persone che non hanno avuto una grande fortuna nella vita, ma con una grande umanità. Ho trovato grande umanità negli ospiti e nel personale, e mi sono integrato subito. Io poi avevo sempre quella maschera particolare, suscitavo comunque una certa simpatia, e quindi in pochi giorni diventai “Quello della maschera”. Un personaggio. Poi diciamolo: a me non dispiace recitare il ruolo del personaggio, per cui mi calai nella parte. Comunque, sempre facendo professionalmente il mio lavoro.
Mi diedero l’incarico di sanificare tutte le varie porte, e le maniglie… E lì ce n’è.
Summertime
Lo zio era ricoverato presso una casa di cura. Prima della pandemia andavo a trovarlo due/tre volte alla settimana, anche perché ero l’unico parente vicino. Abbiamo degli altri parenti nel reggiano, ogni tanto venivano a trovarlo, però non è che potevano… Insomma, mi sentivo in dovere di stargli vicino. Poi, comunque, quando io ero bambino, lui e mia nonna mi hanno accudito, perché mia mamma lavorava, mio papà lavorava. Mi hanno cresciuto anche loro, mi sembrava giusto stargli vicino, ricambiare quello che ha fatto per me quando ero bambino e ragazzo.
Il direttore della casa di cura a un certo punto giustamente ha vietato gli ingressi ai visitatori. Sentivo lo zio per telefono. Riuscì a fare un quattro o cinque telefonate. Poi, poco prima di Pasqua, l’ultima telefonata. Sentivo il respiro un po’ affaticato, cominciai a sospettare: “Mica avrà preso il virus anche lui”. Infatti, il venerdì di Pasqua, mi telefonarono che s’era aggravato, che gli avevano fatto il tampone e che era positivo. Poi è mancato. Il sabato di Pasqua è mancato.
Feci questo viaggio in taxi. Era mancata mia mamma nel settembre del 2019 e avevo utilizzato delle onoranze funebri con cui mi ero trovato bene in zona via Novara. E presi il taxi e attraversai questa Milano deserta, in una situazione e uno stato d’animo particolari. Stavo vivendo anch’io mio malgrado quella situazione descritta dai media: non poter dare un ultimo saluto, non poter celebrare il funerale, con l’obbligo di cremazione della salma a centinaia di chilometri di distanza, in un paese del Friuli. Lui è morto l’11 aprile e mi sembra che poi l’urna fu portata a Bruzzano nei primi di maggio. Tutto sommato i tempi, considerata la situazione, furono anche abbastanza veloci. Anche per mio padre e mia madre ci misero un po’, e non c’era ancora la pandemia. Forse perché lo zio non morì durante il picco, quando abbiamo visto quei camion a Bergamo.
Lui abitava in una casa popolare in via Anfossi, zona XXII Marzo, e il suo desiderio era, mi aveva accennato una volta, siccome era un grande amante di Gershwin… Avrebbe voluto che la salma, il carro funebre, si fermasse un minuto nel cortile di questo palazzo e che fosse suonata Summertime cantata da Ella Fitzgerald, che mi sembra sia dentro l’opera Porgy and Bess. E invece è andato tutto in un altro modo…
Ho cercato comunque di accontentarlo: quando arrivò l’urna e poi fu depositata nel cimitero di Bruzzano, col telefonino suonai Summertime. Non è la stessa cosa, però ho cercato di esaudire questo suo desiderio. Mentre depositavano la celletta nella tombina, vidi qualcuno che mi guardava strano, però ne fregai: questo era il desiderio che aveva lui, ho ha cercato di esaudirlo.
Non come voleva magari, però avrà capito.
Come in Tv. Anzi peggio
Un giorno tornando in bici da viale Ortles ho voluto provare pure io. La vedevo in Tv, su Sky TG24 o altri telegiornali: piazza del Duomo vuota. Ho voluto provare di persona personalmente, come direbbe l’aiutante di Montalbano. E mi son pentito… Chissà, magari è stato anche conseguenza di un effetto mediatico: tu vedi il Duomo in televisione vuoto, poi ci vai anche tu e hai già un input psicologico particolare.
Insomma, pensavo di andare lì e godermelo, invece è stato agghiacciante, ho provato una grande angoscia. Mi sembrava di violare qualcosa di sacro, di calpestare un terreno che era bene non calpestare…
Al primo tram che passava son salito su, sono andato via.
L’ultima domenica di lockdown
Il 4 maggio venivano tolte delle limitazioni. C’era qualche briciolo di libertà in più, tra cui la possibilità di andare di fare dei giri in bicicletta. Il giorno prima scelsi quale delle mie tre bici utilizzare per questo grande rientro. La preparai con cura: mi misi in cortile la domenica pomeriggio, e cominciai a lubrificare la catena, a gonfiare le gomme, a fare una piccola prova di freni, a pulirla tutta. Insomma un check, una revisione prima di mettermi in strada. Il giorno dopo è stata una sensazione bellissima. Non ho mai visto così tanta gente in bici come quel 4 maggio 2020 e nei giorni seguenti.
Mi chiamano il vagabondo, sono sempre in giro. Però sono riuscito a stare in casa tutte quelle ore, qui giorni, quei mesi, e comunque a non annoiarmi, a non intristirmi, a non deprimermi. Mi chiedo come ho fatto, io che ci son sempre stato poco, tra partite di basket, concerti di gruppi sconosciuti, birre con gli amici, passeggiate sui Navigli in solitaria. In genere da solo non mi do dei meriti, invece questa volta ho detto: “Beh Simone, sei stato bravo, sei stato tenace, non ti sei lasciato andare”, nonostante la mancanza dello zio che poteva accentuare uno stato… Non dico di depressione, però insomma di decadimento del carattere. Eppure ce l’ho fatta. Mi sono piaciuto.
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