«I nolers a furia di fare aperitivi figlieranno?»
Prima è stato genitore di due alunni della scuola. Poi portavoce del comitato genitori, mentre faceva l’insegnante altrove, fuori Milano. Poi quando si è sbloccato il concorso da dirigente ha deciso appena ha potuto di farlo all’Istituto Comprensivo Statale “Via Giacosa”, perché ormai ci era legato, anche un po’ sentimentalmente. Così come al quartiere, che è anche il suo. Francesco Muraro è il preside dell’Istituto Comprensivo Statale “Via Giacosa” che si trova al Parco Trotter, specchio di tutti i cambiamenti del quartiere da sempre. Quando lo intervisto, a inizio gennaio 2021, la scuola è ancora operativa. Nelle sue parole c’è tanto amore per il suo lavoro, frase retorica la mia, ma Francesco non lo è affatto, anzi, è molto ironico. Il suo effetto personale racconta il peso della situazione, e la sua lunare particolarità, ma anche la capacità di Francesco di farsene carico come meglio è possibile fare, come mi ha raccontato qui. La “scuola del Trotter” ha una storia particolare, con il suo parco e la sua attenzione ai bambini bisognosi di cure già dagli anni Venti e poi nel Dopoguerra, ai figli degli immigrati italiani poi e infine oggi a quelli provenienti da tutto il mondo.
L’Istituto Comprensivo via Giacosa non finisce dentro il perimetro del Parco, un bel pezzo di scuola sta fuori. Ci sono tre sezioni di scuola dell’infanzia all’interno dell’edificio scolastico di via Pontano. E poi ci sono la scuola elementare, ovvero primaria, e la scuola media, ovvero secondaria di primo grado, di via Russo ai civici 23-27 che hanno 15 classi la primaria e 6 classi la media. Poi dentro il parco ci sono 24 classi di scuola primaria e 12 di scuola media.
Abbiamo 1.375 studenti circa. In una scuola come la nostra arriviamo a un 70% di alunni CNI, con Cittadinanza Non Italiana, una formula stramba ma è quella che si usa sulle carte, e dentro a questi alunni CNI abbiamo un’ulteriore suddivisione da tenere in considerazione, perché ci sono i bambini e le bambine nate in Italia da genitori stranieri, quindi 2G, Seconda Generazione, e abbiamo i NAI, i Neo Arrivati in Italia. Nell’anno scolastico 2018/19 abbiamo accolto, tra settembre e maggio, 130 alunni Neo Arrivati in Italia, con l’italiano a zero: circa il 10% dei nostri alunni, più o meno.
Una complessità mi permetto di dire abnorme: bisogna avere per ciascuno di questi 130 alunni la possibilità di alfabetizzazione, o quantomeno di favorire l’apprendimento della lingua italiana come seconda lingua in tempi non lunghi, e dentro classi dove la lingua italiana è tutto sommato minoritaria. L’apprendimento attraverso il dialogo quotidiano con insegnanti e compagni è un pochino meno facile. Nostro compito è anche variare le nazionalità all’interno delle classi, cioè non concentrare arabi, cinesi, filippini, per creare un’eterogeneità linguistica per cui devono essere, diciamo così, costretti a usare l’italiano come veicolo di mediazione linguistica e per l’apprendimento.
Nolers che figliano?
Questo è un quartiere che ha una storia di migrazioni, prima dal Veneto e dal sud, e adesso da tutto il mondo. Un tratto identitario che secondo me avrà una lunga gittata. Sicuramente bisogna vedere post pandemia, quando ci sarà una stabilizzazione di queste geografie un po’ mobili della città, se si consolida questa idea di Nolo, questo marchio che racchiude tante cose. Diventerà la caratteristica del quartiere di essere multietnico e anche, diciamo così, di essere sede di creativi e di lavoratori di una Milano intermedia, quella della formazione, dei professionisti, della comunicazione, della moda.
Ogni tanto scherzando mi dico: i nolers a furia di fare aperitivi prima o poi cominceranno anche a fare dei figli, no? (ride). Si incomincia a intravedere qualche passeggino con dietro non una mamma bengalese o velata, ma una italiana, che probabilmente fa anche un mestiere legato alla comunicazione, o chessò, fa l’architetto. Insomma, si comincia a vedere l’effetto della nuova classe media arrivata nel quartiere. E così passeggini are coming, pian pianino. Pian pianino.
A macchia di leopardo
Questa è una mia lettura del tutto personale, non da preside: è una mutazione a macchia di leopardo quella che si vede nel quartiere. Non è un quartiere che in maniera sistematica si è trasformato, qua palazzo per palazzo cambiano le geografie. L’altro giorno, un poliziotto con cui parlavo per questioni di scuola, mi ha saputo dire in che palazzo della mia via abito, e mi ha spiegato perché: “In altri palazzi di quella via abbiamo fatto delle perquisizioni. E visto che lei fa un mestiere, diciamo così, da professionista, non può certo abitare al 16 o al 14, ma deve abitare per forza al civico 2”. Perfino le forze dell’ordine hanno una geografia a scacchiera del quartiere.
Ci sono palazzi ristrutturati bellissimi e altri decadenti, alcuni che hanno 200 mila euro di debiti di condominio perché colonizzati da una etnia. Insomma, c’è un po’ di tutto. Questa eterogeneità è multiculturale, e ha queste stratificazioni di classe, come si diceva una volta. Di fianco al negozio di carne ḥalāl c’è una sala con le mostre di artisti, per cui c’è la mamma araba che compra il vitello trattato e di fianco degli svapatori con la barba, fuori in attesa di entrare a vedere le opere di tizio e di caio. Ovviamente, tutto questo prima della pandemia.
La scuola non può effettivamente favorire questo contatto tra etnie e classi sociali così differenti? Il Trotter non fa proprio questo?
Il grande pregio della scuola pubblica è di essere per suo statuto interclassista ed eterogenea. Ma dal 1998, cioè da quando si è usciti dal vincolo di appartenenza al bacino (cioè tu ti dovevi iscrivere a una scuola vicino a casa, non potevi sceglierti un’altra scuola), si è creato un fenomeno di migrazione verso le scuole ritenute migliori, o più effettivamente capaci di farti salire nella scala sociale. Oggi già basterebbe andare in una scuola che ti permette di mantenere il tuo status sociale, non dico di salire. Per noi è il problema numero uno.
Finché siamo alla scuola primaria, c’è il parco, è tutto molto carino, va bene, il figlio poi è piccolo, lo devi accompagnare tu a scuola e allora va bene sotto casa. Però già alle medie è più autonomo, e poi “bisogna studiare sul serio, ci sono troppi stranieri, il programma va lento, lo mettiamo in un’altra scuola”. Questo pensiero già quest’anno ha comportato un movimento verso un’altra scuola di quasi il 50% degli alunni che uscivano dalla primaria.
Noi dobbiamo combattere questo pregiudizio, non del tutto infondato certo: è vero che più è complessa la scuola, più si fa fatica a portare avanti il programma. Però posso testimoniare come genitore che i miei figli sono cresciuti privi di pregiudizi, con una grande elasticità mentale, con una grande capacità di adattarsi alle situazioni, agli imprevisti. L’hanno imparato facendo questa scuola, in un contesto dove la tua compagna di banco viene dal Senegal, è tua amica ma ha un problema con i genitori perché non la fanno uscire di casa. E allora devi interfacciarti con una cultura diversa, non in astratto, ma in concreto. La scuola pubblica deve essere interclassista, e quindi anche aconfessionale, nel senso buono del termine. Questa pluralità è il pregio della scuola pubblica, ma purtroppo in questo momento c’è quest’altro aspetto, la fuga dei bianchi.
C’è un bel saggio di Costanzo Ranci, The White Flight in Milan. Ha fatto una ricerca statistica molto puntuale, dimostrando chiaramente che i flussi soprattutto dell’utenza italiana, dalla primaria alla secondaria, e della secondaria di primo grado alla secondaria di secondo grado, sono sempre più verso il centro, sempre più verso le scuole private, sempre più verso scuole che garantiscono il mantenimento/crescita dello status socio-economico familiare.